Se c’è un veterano della narrazione afroamericana, quello è Stanley Nelson, che ha realizzato documentari su questa comunità per più di trent’anni come The Murder of Emmett Till e Freedom Riders. Coi recenti accadimenti che stanno letteralmente mettendo a ferro e fuoco l’intero territorio federale a causa dell’omicidio di George Floyd, Stanley Nelson è stato inizialmente reticente a scendere in strada per manifestare, titubanza che ha lasciato il passo alla presa di posizione quando i suoi stessi figli gli hanno chiesto di poter scendere in strada.
I bambini hanno quindi spinto il padre a prendere una posizione, quanto meno mediatica, facendo sì che Stanley Nelson abbia iniziato a seguire da vicino la crescente affluenza delle proteste per George Floyd. Ha condiviso i suoi pensieri con IndieWire sul perché crede che i cineasti neri debbano essere i primi a catturare lo spirito di questo tempo, discutendo inoltre delle sue frustrazioni dovute ai media e delle connessioni storiche che ha scoperto attraverso il suo stesso lavoro. Durante l’intervista – integrale su IndieWire – Stanley Nelson ha dichiarato:
Tante volte i movimenti che fanno la storia partono da proteste come questa, perché c’è un’intera generazione di giovani che si politicizza. I miei gemelli di 21 anni possono far parte delle marce di New York, ed è qualcosa che hanno insistito per fare. Lo stanno vivendo come un momento molto significativo.
È importante per i documentaristi capire che siamo noi i veri testimoni. I cineasti di colore in particolare hanno la possibilità di raccontare le loro storie, ma spetta ai cineasti bianchi permettergli di farlo, perché è sotto gli occhi di tutti come abbiano accesso per primi al denaro e alle attrezzature.
Questo momento ci deve aprire gli occhi non solo su ciò che è accaduto con George Floyd o col Coronavirus, ma anche sugli altri tipi di razzismo di cui siamo vittime e fautori. Penso che sia importante vivere questo momento come illuminante.
Su come i media stiano aiutando l’amministrazione Trump invece, Stanley Nelson ha un’opinione piuttosto specifica. In molti infatti hanno considerato queste proteste come un’occasione d’oro per il governo di spostare l’attenzione dalla cattiva e fallimentare gestione della pandemia negli Stati Uniti. Nelson è d’accordo sul fatto che voluta o meno, questa campagna di distrazione è attualmente in atto, ma che c’è un substrato altrettanto evidente a cui dovremmo fare molta più attenzione:
Ciò che non si vede a primo acchito dai reportage è che queste proteste, così violente, sono state fatte anche per dare una risposta al Trumpismo, che ha causato un sentimento di razzismo incoraggiato sempre crescente.
Parte della frustrazione deriva dal fatto che come popolo abbiamo intrinsecamente bisogno di connettere chiaramente la morte di George Floyd alla pandemia e di conseguenza alla politica di Trump. È un sentimento comune che oggi come oggi fa parte dell’essere americani.
Ovviamente tutto è gonfiato dall’eco mediatica che le proteste stanno avendo per via della loro violenza. Se fossero state pacifiche, non avrebbero mai avuto tutta questa attenzione dai media. La rabbia è dentro tutte le persone e ciò che mi sorprende è che in parecchi casi a manifestare siano soprattutto i bianchi.
Non è più una questione di Black Power, sono i che giovani sono diventati frustrati dal modo in cui questa società sta prendendo una piega sbagliata e dal fatto che non si parli affatto di uguaglianza o cambiamento da parte del governo federale.
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