La fiaba di Hollywood è cambiata nel corso dei decenni. Lungo la storia di un ragazzino di una piccola città che si snoda su Hollywood Boulevard con nient’altro che un dollaro e un sogno, i creatori hanno osservato quella possibilità praticamente da ogni angolo; così tanto che il serpente si è voltato, e quello che stiamo vedendo ora è Hollywood che sta rivivendo la sua storia.

L’anno scorso, il regista Quentin Tarantino ha riscritto uno dei giorni più bui di Los Angeles – l’omicidio di Sharon Tate – con il suo C’era una volta a Hollywood. Pellicola che ha perfettamente descritto il modo in cui ha presentato Hollywood alla fine degli anni ’60: come un parco giochi halcyon che non vedremo mai più.

Per Tarantino, il bagliore dorato di Hollywood è direttamente legato ai capelli biondi e agli occhi spalancati di Tate. A lungo citato come l’angelo dell’innocenza il cui brutale omicidio segnò la fine dell’era del libero amore degli anni ’60, è difficile guardare il film di Tarantino e ignorare il privilegio bianco presentato nella sua rappresentazione di Los Angeles. La Hollywood di C’era una volta a Hollywood è quella in cui gli attori di minoranza e le loro lotte sono cancellate.

Ed è per questo che la nuova serie Netflix di Ryan Murphy, semplicemente soprannominata Hollywood, sembra una vera fiaba dell’intrattenimento. Non contiene solo retroscena rivisti per personaggi famosi; presenta un paesaggio in cui il sogno è che le persone sedute dietro i banchi dei vari studi cinematografici si preoccupino davvero della diversità. Avendo luogo presso gli immaginari Ace Studios (pur recando le famose porte della Paramount Pictures), i sette episodi della serie creano un mondo in cui la prima donna afroamericana vince un Oscar come migliore attrice nel 1947, dove l’attore Rock Hudson è stato in grado di vivere, e dove un capo dello studio – interpretato dalla leggenda di Broadway Patti LuPone – capisce che non si tratta solo di chi è proiettato sullo schermo, ma di come si possa sentire una minoranza se rappresentata sul grande schermo.

Durante i sette episodi di Hollywood il pubblico vede la creazione del film di finzione “Meg”, una reinterpretazione della storia di Peg Entwhistle. L’attrice nera Camille Washington (Laura Harrier) ha l’opportunità di interpretare il personaggio di Peg in una storia scritta da Archie Coleman (Jeremy Pope), uno sceneggiatore nero che è anche gay. La vittoria di Camille agli Oscar per la sua interpretazione rappresenta un momento chiave per ricordare tutte le attrici nere le cui carriere sono state ostacolate dal razzismo. Guardare Camille essere la prima attrice nera a vincere un Oscar per l’attrice protagonista negli anni ’40 è ricordare che Halle Berry ha raggiunto la stessa impresa sono nel 2001. Ed è ancora più doloroso ammirare un uomo di colore immaginario assicurarsi un Oscar per la migliore sceneggiatura, riconoscendo che solamente l’anno scorso Jordan Peele è diventato il primo uomo di colore a vincere un Oscar per la stessa categoria.

Questo non vuol dire che la versione di Murphy sia un’utopia perfetta (e nemmeno quella di Tarantino). Murphy vive ancora in un mondo pieno di razzismo e omofobia. La distinzione è il suo tono generale. In confronto a C’era una volta a Hollywood, ciò che Murphy fa è creare una fiaba in cui la macchina è un cuore pulsante. Dove i magnati si preoccupano delle loro stelle, dove la razza non è solo una parola d’ordine, sfruttabile per mettere i mozziconi nei sedili, ma una vera e propria capacità di cambiare il mondo. I personaggi comprendono la responsabilità che il film ha di cambiare il cuore e la mente, e agisce su di esso, benché la realtà sia più dolorosa della finzione.

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