James Gray è un vero padrone della notte. Nel corso della sua filmografia, il regista americano ha dimostrato di saper gestire come pochi la dialettica tra due mondi così distanti tra loro eppure sempre complementari: il buio e la luce. Gray chiede allo spettatore un atto di fede, spingendolo ad abbandonare le prese di distanza e ad abbracciare la sublime semplicità del suo cinema. Ben 25 anni dopo aver vinto il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia con Little Odessa, Gray torna in Laguna per presentare Ad Astra, titanico progetto prodotto ed interpretato da Brad Pitt (reduce da C’era una volta a…Hollywood) ed ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Il cinema del regista americano continua a nutrirsi dei fantasmi dell’immaginario culturale per alimentare le proprie private ossessioni, che dovrebbero essere già note a chi abbia visto almeno qualche film che porta la sua firma.
Ad Astra – La storia di un’ossessione
Ad Astra è il lungometraggio più costoso diretto da James Gray che, più volte, ne ha rimandato l’uscita e, probabilmente, la sintesi del suo cinema, in grado anche di segnare un inesorabile punto di svolta nella carriera del regista di Two Lovers. Il film racconta la storia di Roy McBride, un astronauta affidabile e razionale che somiglia ad una macchina perfetta. Il suo cuore non supera mai le 80 pulsazioni al minuto e, nel corso della sua carriera, McBride ha raggiunto risultati perfetti. Come se non bastasse, l’astronauta è anche figlio d’arte: il padre, infatti, Clifford, è un pioniere dei viaggi nello spazio che, circa vent’anni prima, è andato incontro ad un oscuro destino. L’uomo è scomparso con il suo equipaggio alle soglie del pianeta Nettuno. Roy lo ha sempre creduto morto. Ma quando sembra che dietro alle scariche di energia che stanno causando la distruzione del pianeta Terra possa celarsi proprio Clifford, Roy parte per una missione spaziale alla ricerca del padre. Così, il figlio si immergerà nel proprio cuore di tenebra, misurandosi con gli errori suoi e del suo genitore.
A pensarci bene, Civiltà perduta non avrebbe potuto desiderare sequel spirituale migliore di questo e Ad Astra giunge in un momento perfetto per la carriera di Gray. Con i loro padri da inseguire e con due donne tradite e abbandonate, i due film si impongono come sforzi titanici che fanno delle ossessioni dei loro protagonisti il motore narrativo del racconto. L’uomo di Gray è sempre un immigrant, uno straniero che proprio non ne vuole sapere di rimanere fermo e di rinunciare al suo sogno maniacale, che lo porta a sprofondare nella giungla oscura e nello spazio più profondo.
Ad Astra – Le colpe dei padri ricadono sui figli
Lo straordinario cast di Ad Astra comprende i nomi di Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Donald Sutherland, Ruth Negga e Liv Tyler. Ogni attore incarna un modello ben preciso del cinema di James Gray, stranamente più minimale rispetto agli standard a cui ci aveva abituati ma pur sempre edificato sull’estrema umanità e debolezza dei suoi personaggi. Il film, che ha fatto il suo debutto alla 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, infatti, è costruito su dinamiche intimiste e su movimenti verticali che dirigono il viaggio di Roy McBride. L’astronauta è un uomo che ha abbandonato il proprio sottosuolo, si è sottratto agli affetti familiari e si è immerso nello spazio più profondo per curare sé stesso. La missione di recupero del padre, però, lo metterà di fronte alle mancanze genitoriali e alla zona oscura a cui attingere per affrontare il proprio passato ed il dramma delle colpe degli avi che ricadono sui figli.
Tra immagini ineccepibili ed antispettacolari ed un afflato filosofico basato sull’uso insistente della voce fuori campo, Gray prende per mano gli spettatori, provando a scalfire le superfici delle cose insieme al loro aiuto. È nel fuoricampo strabordante dell’infinità spaziale che si produce qualcosa di intimo ma, nel frattempo, universale. Un qualcosa che vale la pena di indagare e che, secondo il regista, per la prima volta, non si trova nello spazio più profondo situato all’esterno delle cose, ma dentro di noi.
Ad Astra – L’universalità dei sentimenti
La figura della crisi, stavolta, non trova la sua risoluzione nella salvezza dell’anima agli occhi di un genitore (che siano le madri di The Yards o di Two Lovers o il padre de I Padroni della Notte) ma nell’essenzialità di un amore sconfinato nei confronti di un cinema altro, che sappia suturare la distanza tra mito, ossessione e vita. E, in Ad Astra, l’amore sconfinato è quello di un figlio finalmente disposto a liberarsi dai suoi fantasmi per abbracciare la linearità ed il minimalismo che aveva sempre rifuggito. Quello che risede nello sguardo della persona amata e nella forza dei sentimenti.
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Riassunto
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Ad Astra chiede un atto di fede allo spettatore e racconta la storia di un viaggio ai confini del proprio cuore di tenebra. L’ultimo film di James Gray è una titanica seduta psicanalitica che affonda nell’immaginario del mito e della letteratura per affrontare il lato oscuro delle sue ossessioni.