Confezionare un prodotto cinematografico come Bohemian Rhapsody, oramai lo sappiamo, non è stato per nulla facile. Ha richiesto tempo e pazienza, sopratutto da parte dei Queen, che fino all’ultimo hanno preferito bocciare i vari progetti presentati dagli sceneggiatori. Un iter sfiancante per tutti i fan della band, rimasti senza una celebrazione degna della maestosità del cantante sin dai tempi del Freddie Mercury Tribute a Wembley. Il tempo premia chi attende e nel caso di Bohemian Rhapsody aver fatto le cose con parsimonia ha dato i suoi frutti non solo dal punto di vista cinematografico, ma anche da quello della sensibilizzazione. Il film non è stato pensato per essere un manifesto di lotta contro l’AIDS, essendo Freddie Mercury la vittima più compianta del virus, e scrivere un racconto che non finisse per fare mera educazione alla prevenzione ha dato un bel da fare a Anthony McCarten, sceneggiatore del film.

L’AIDS è però un elemento fondamentale della storia dei Queen e non si può fare a meno di utilizzarla come espediente drammatico. La scomparsa di Mercury, causata da uno stile di vita sfrenato, ha aumentato l’aura di leggenda cresciuta attorno all’eredità artistica del cantante, punto di partenza questo che rischiava di far passare Freddie per un martire eroico e non una semplice vittima di una malattia che ha fatto strage di giovani in tutto il mondo. Mostrarlo forte ed energico nei confronti del virus, sarebbe stata la via drammatica più veloce per creare situazioni che esaltassero il personaggio come un eroe classico e quindi più coinvolgenti per la massa, ma Bohemian Rhapsody ha fatto una scelta diversa e migliore: ha mostrato Freddie per quello che è stato nella vita reale, un uomo che di fronte alla scoperta del contagio si è sentito crollare il mondo addosso, e una volta presa la consapevolezza del proprio destino ha dato il massimo fino alla fine, avvenuta il 24 novembre 1991.

Il film mostra un Freddie Mercury profondo e umano di fronte alla tragedia della malattia

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Il tema dell’AIDS in Bohemian Rhapsody viene trattato con una cura inaspettata e sfruttando un vantaggio di cui nessun altro regista avrebbe potuto godere in altri film, perché dalla parte di Bryan Singer c’era Freddie Mercury, uno che dalla sua arte e dalla sua condizione di salute ha saputo trarre degli spunti creativi che ancora oggi sono una motivazione a non arrendersi mai per miliardi di fan. La consapevolezza del Freddie malato avviene dopo un ciclo di eventi che lo mostrano all’apice della propria tracotanza, con successi discografici, sesso sfrenato e droga all’ordine del giorno. Elementi questi che hanno accomunato molti di coloro che sono stati inconsapevolmente esposti al contagio e che rendono quindi il cantante uno dei tanti. Vediamo Mercury lasciarsi andare ai vizi mentre il racconto non accenna al virus, creando nello spettatore un’inconsapevolezza di cosa il cantante stesse rischiando, per poi spuntare all’improvviso facendo suonare l’allarme sia nel protagonista sia in noi che ne stavamo osservando dispiaciuti il tracollo personale.

Bohemian Rhapsody inizia quindi un secondo momento drammatico in cui la pena della malattia viene inflitta ad un uomo che fino a quel momento stavamo apprezzando per il valore artistico e compatendo per la profonda fragilità, dandoci la sensazione di essere affezionati non più al Mercury leggenda ma all’individuo sensibile e meravigliosamente normale quale è stato lontano dai riflettori. Da qui il racconto si concentra sulla psicologia del malato, che sente il mondo sfuggire al suo controllo e alle prese con dei sensi di colpa per come abbia gestito male la sua vita – non tanto perché all’epoca il contagio fosse evitabile al 100%, quanto per la consapevolezza di cosa il virus comporti. Dal momento in cui il medico conclama la sieropositività inizia un conto alla rovescia difficile da gestire, ma che Freddie Mercury riuscì a tramutare in una spinta vitale che ha regalato ai posteri opere musicali come Barçelona, The Miracle e Innuendo.

Il film riesce a celebrare la grandezza umana di Mercury e allo stesso tempo sensibilizzare lo spettatore, proprio grazie alla realizzazione di un protagonista che di fronte alla macchina da presa non è più un mostro sacro della musica, ma bensì un individuo spogliato della sua armatura che deve affrontare le conseguenze della malattia. Bohemian Rhapsody esalta questo elemento che regala al film una sfumatura drammatica più reale di quanto ci si aspetterebbe, grazie ad una regia perfetta delle sequenze in cui Freddie prende consapevolezza di cosa il suo corpo stia subendo. Un excursus, quello del personaggio, che non tralascia nemmeno un passaggio del percorso della sieropositività, dal momento del contagio al momento della diagnosi. Ad aumentare l’enfasi del momento più drammatico del racconto, di sottofondo possiamo sentire Who wants to live forever?, grazie alla quale si capisce quanto la percezione del tempo cambi per sempre per chi riceve questa notizia, proprio come successe a Freddie. In occasione della Giornata mondiale contro l’AIDS, vi invitiamo a visitare il sito del Mercury Phoenix Trust, la fondazione dedicata al frontman che aiuta la ricerca sin dalla morte del cantante.

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