Siamo giunti alla fine di quella che per Netflix è – o meglio, dovrebbe essere – il suo primo grande classico di casa. Oppure, di quella che Francis J. Underwood avrebbe definito alla fine della quinta stagione “l’Era della Ragione, dove non c’è più giusto o sbagliato, ma solo essere dentro o essere fuori”. Il mondo dello spettacolo tradizionale infatti ha cessato di esistere, ha invertito la sua dinamica, il suo modo di pensare, finendo per essere un tracollo del buon senso ed House of Cards è a pieno titolo l’esempio migliore per rendersene conto. Dopo quanto successo lo scorso anno durante lo scandalo Weinstein – che ha definitivamente stravolto lo show business – non ci sono dubbi sul considerare Kevin Spacey il capro espiatorio perfetto sul quale il sottobosco del #MeToo si potesse scagliare per dare un messaggio alla popolazione dei vip: benvenuti, appunto, alla fine dell’Era della Ragione. Sebbene House of Cards abbia ridato a Spacey il prestigio che il suo talento merita, la crescita di Underwood ha coinciso anche con due avvenimenti poco conosciuti ai più: le antipatie che l’attore ha inevitabilmente – e senza nemmeno troppa attenzione – sviluppato nell’ambiente attoriale – e forse anche tra gli LGBT – e il potere che Netflix stava acquisendo, sopratutto grazie agli sforzi produttivi di Spacey.
House of Cards e Kevin Spacey
La piattaforma ha infatti basato molto del suo percorso di crescita iniziale sugli sforzi produttivi dell’attore, che ha letteralmente scommesso pesante sul successo del progetto, mettendoci parecchio di tasca sua garantendo così non solo l’avvio della Netflix che conosciamo oggi, ma anche la possibilità dei creativi più piccoli di avere una platea alla quale parlare. House of Cards fu l’inizio della fase crescente e nessun sano di mente oserebbe negare che per il suo successo di pubblico sia da ringraziare Spacey. Questo è il dato di fatto più evidente, anche se non lampante, in secondo luogo ci sono le scelte discutibili dell’attore stesso. Tralasciando le voci che lo vorrebbero al centro di una congiura orchestrata da sette esoteriche smascherate durante la quinta stagione, i veri candidati ad essere i responsabili del suo esilio – visto il potere conquistato dal #MeToo – sono da individuare nei malcontenti delle minoranze, di cui Spacey ha negligentemente attirato le antipatie con abitudini controverse e progetti che ne avrebbero messo fin troppo in luce alcuni lati del carattere, finendo perfino per essere repentinamente messi nel dimenticatoio da Netflix.
Abitudini sessuali controverse, un’intelligenza e un talento da far invidia a tutti i colleghi, un potere produttivo in costante crescita sfociato nella più rischiosa delle hubris e una mancanza di bellezza esteriore hanno condito a puntino il piatto perfetto da servire in pasto ai media dopo le dichiarazioni di Anthony Rapp, alle quali Spacey ha risposto con la più ingenua delle motivazioni travisata dagli americani e dall’opinione pubblica. Se lo scandalo Weinstein ha segnato un uno a zero per le minoranze a Hollywood, Rapp gli ha fatto segnare il centodieci. Ma cosa fai quando il disfattismo ha la meglio sulla ragione, appunto? Cacci via la gallina dalle uova d’oro, fai ripartire una stagione daccapo e ce la metti tutta per far sì che la chiusura di House of Cards sia ancora all’altezza delle stagioni precedenti. Questo sforzo produttivo, episodio dopo episodio, si vede eccome, ma è la principale causa del tracollo del prestigio che con tanto impegno Spacey e Netflix avevano fatto raggiungere alla saga, sebbene le ultime stagioni fossero lievemente sottotono. Accade così che l’ultima stagione altro non è che la fuga di un intero colosso dell’intrattenimento dallo spettro di un uomo che sebbene non sia morto, ha perseguitato la produzione creando un vuoto nella sceneggiatura che pesa tanto quanto la presenza di Frank Underwood.
L’ultima stagione di House of Cards non accontenta nessuno
Anzi, qualcuno in realtà sì, ed è davvero divertente immaginarselo ancora come nell’immagine soprastante. Se si fa partire un cronometro per contare ogni quanti secondi viene citato il nome o la figura di Frank ci si mette a ridere. L’assenza di Underwood e le giustificazioni – totalmente mancati – di questo avvenimento ricalcano grottescamente ciò che è avvenuto al di qua della quarta parete, conclamando il ruolo del personaggio come unica ragione del successo di House of Cards. D’altronde il tempo a disposizione di Netflix per confezionare un prodotto che fosse #MeToo friendly, pro femminista, all’altezza delle aspettative e sopratutto di alto livello senza il suo protagonista, ha messo a dura prova tutto il team creativo. Ognuno dei coinvolti nella produzione ce l’ha messa tutta per restituire ai fan qualcosa che nel bene o nel male rendesse giustizia alla serie, ma risulta evidente quanto quest’impresa sia stata un orbitare attorno al buco nero lasciato da Spacey senza precipitarci dentro. Sceneggiatori e registi hanno dovuto affrontare una sfida senza precedenti e di questo bisogna rendergli atto, ma non puoi fare una stagione di House of Cards senza Frank e il tentativo di sminuire l’importanza del personaggio denigrandolo in più passaggi o standoci a debita distanza non fanno altro che fomentare l’opinione di coloro che vedono nell’assenza di Spacey il punto debole della stagione.
Volenti o nolenti, gli sceneggiatori hanno inserito Frank praticamente ovunque
Frank è ovunque, in ogni dialogo, in ogni scena, in ogni riferimento, ed è inevitabile; non si può scardinare l’intera struttura narrativa di un ciclo basato interamente sull’importanza dell’ex presidente e tentare di farlo – tanto più omettendo perfino il volto di Spacey nei passaggi in cui i riferimenti fisici a Frank vengono inquadrati – compromette definitivamente ogni tentativo di esaltare Claire come forza trainante della stagione. Nulla può quindi l’impegno degli sceneggiatori contro una lacuna enorme, che viene ulteriormente allargata dalla comparsa improvvisa di nuove dinamiche e nuovi personaggi giunti nella trama come un fulmine a ciel sereno, senza preavviso e senza giustificazione. I collegamenti col passato dei protagonisti – che spesso sono i lati oscuri che arricchiscono l’intrigo di House of Cards – sono oramai assenti. Ci si trova di fronte ad una stagione che più che una chiusura sembra una piccola parentesi, uno spin-off o un sequel alternativo della saga principale, con dinamiche apprezzabili solo se accettate come a loro stanti e non facenti parte di una trama più complessa e lunga sei stagioni. Le origini dei fratelli Shepherd e la morte di Frank sono i dei dettagli accennati e lasciati in sospeso, forse per non dover rendere conto al pubblico troppo legato al presidente Underwood, forse – e sicuramente – per mancanza di tempo e di coerenza nel produrre una chiusura di ciclo orfana del protagonista.
Anche la regia – un tempo mastodontica, classica, granitica – non raggiunge più il virtuosismo che la stessa Robin Wright ha saputo raggiungere dietro la macchina da presa, risultando scremata, poco incalzante, costretta ad assumere gli stilemi fondamentali di House of Cards senza però una valida base narrativa sulla quale adagiare dei tocchi visivi di prima categoria, come avveniva nelle stagioni precedenti. Quando un regista non ha nulla da dire la causa non risiede esclusivamente nel suo talento ma anche – e sopratutto – nella sceneggiatura che deve adattare e in questo caso possiamo ben comprendere come perfino lo stile visivo inconfondibile di House of Cards sia dovuto crollare sotto il peso del nulla. Uno dei linguaggi filmici più iconici della televisione è quasi del tutto sparito e lo si nota immediatamente sin dalle prime inquadrature, accompagnate da una colonna sonora che si discosta troppo dai temi principali, creando atmosfere sonore del tutto nuove ricalcate su Claire ma per nulla coinvolgenti come quelle a cui siamo abituati, nonostante siano composte ad hoc e con una certa attenzione. Tecnicamente la sesta stagione perde quasi tutto il suo stile unico, diventando una versione semplificata del suo splendore come se un modellino del Partenone venisse fotografato e spacciato per il tempio originale.
House of Cards 6 è il tutto diverso dalla somme delle singole parti
La legge della Gestaldt è perfettamente applicata durante ogni episodio. Se House of Cards era un tutto composto dall’intero cast originale, ogni singolo personaggio della sesta stagione addizionato al suo vicino non crea l’omogeneità che la sceneggiatura ha cercato di creare. Questo perché fino ad una stagione fa il tutto corrispondeva con Francis, attorno al quale orbitano gli altri personaggi, che ora sono costretti a rivoluzionare attorno al vuoto. I personaggi sono ancora magnifici, siamo profondamente legati ad ognuno di loro e gli interpreti sono sempre all’altezza della situazione, ma devono scontrarsi con la realtà dei fatti che ha sgretolato l’intera stagione e patire l’assenza di Spacey. Robin Wright prima di tutti fornisce al pubblico un’interpretazione eccellente, degna del suo personaggio, così come Michael Kelly e i membri anziani del cast. Claire è quella che deve portare la croce maggiore, caricandosi sulle spalle la responsabilità del successo di una stagione nata morta che non le rende giustizia come meriterebbe Wright, all’apice delle sue abilità professionali disgraziatamente sminuite dalle scelte di Netflix. A produzione in corso l’attrice aveva annunciato il suo ritiro dalle scene e non possiamo biasimarla per la scelta, complimentandoci per il tempismo perfetto che le ha permesso di uscire di scena a seguito di una stagione che ha dato prova del suo talento, totalmente ininfluente sull’insuccesso dell’ultima stagione.
Ogni membro della produzione ha fatto di tutto per tenere a galla un prodotto nato morto
I nuovi acquisti di House of Cards, i fratelli Shepherd, sono degli ottimi personaggi, tenuti in vita da degli eccellenti interpreti, ma non possono essere giudicati come dei profili a tutto tondo, sebbene di fatto tengano in piedi l’intera stagione. Greg Kinnear è la sorpresa migliore regalataci da Netflix, che scegliendo accuratamente l’interprete di Bill e mette un tampone alla carenza di interpreti principali di alto livello – eccetto Wright – e la sua prova nei panni del magante cospiratore è una delle poche cose che creino interesse nello spettatore, che almeno in questo caso può godersi qualcosa di nuovo e davvero godibile. Percorso pressoché analogo per Diane Lane nei panni della sorella Annette, ennesimo collegamento col defunto presidente che spunta dando filo da torcere a Claire iniziando una competizione femminile dalle trame a volte fin troppo da salotto. Elementi che sovrapposti uno sull’altro creano una stratificazione superficiale della trama per nulla paragonabili alle macchinazioni di Frank per annientare i suoi nemici, messe in atto grazie all’aiuto del suo braccio destro infallibile, Doug Stamper, che chiude in conti con House of Cards nel modo più deplorevole.
A conti fatti il bilancio finale di questa stagione è triste e fa molto, molto male. Giungere alla chiusura di House of Cards nel modo in cui ha scelto Netflix non premia nessuno di coloro che volevano eclissare il protagonista indiscusso della saga, né il #MeToo, né la piattaforma, né tantomeno il cast, che mai come in questa stagione ha spinto al massimo per rendere giustizia ad una serie che non può restare ad alti livelli senza Kevin Spacey e Frank Underwood. Le motivazioni degli sceneggiatori sono un riassunto perfetto della situazione precaria nella quale è sprofondata la produzione dopo le scuse pubbliche dell’attore, e il prodotto finale è uno sforzo creativo disumano che nulla può di fronte all’evidenza dei fatti: senza di lui, loro non sono niente. Al pubblico invece resta solo la certezza che Claire aveva torto marcio, che il dolore non è solo dolore, ma ne esistono davvero due tipi come sosteneva Frank, quello che ti fortifica e quello inutile, e la sesta stagione di House of Cards è sicuramente un dolore inutile.
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Riassunto
Giungere alla chiusura di House of Cards nel modo in cui ha scelto Netflix non premia nessuno di coloro che volevano eclissare il protagonista indiscusso della saga, né il #MeToo, né la piattaforma, né tantomeno il cast, che mai come in questa stagione ha spinto al massimo per rendere giustizia ad una serie che non può restare ad alti livelli senza Kevin Spacey e Frank Underwood. Le motivazioni degli sceneggiatori sono un riassunto perfetto della situazione precaria nella quale è sprofondata la produzione dopo le scuse pubbliche dell’attore, e il prodotto finale è uno sforzo creativo disumano che nulla può di fronte all’evidenza dei fatti: senza di lui, loro non sono niente (semi cit.).